Dire “non lo so” senza perdere terreno
[Onde #225] Mostrare i passaggi, non improvvisare le conclusioni: quando la risposta non c’è (ancora), l’autorevolezza passa dal processo.
C’è un attimo, prima di rispondere a una domanda, in cui tutti noi sentiamo la tentazione di riempire il vuoto con una sicurezza di cartone. È l’attimo in cui “non lo so” sarebbe la frase giusta, ma l’ego spinge per una scorciatoia brillante. L’abbiamo fatto tutti. Poi però bisogna capire che la tanto invocata - giustamente! - trasparenza non è confessarsi in pubblico né mettersi su un piedistallo etico: è spiegare dove sei del percorso, non fingere di essere già arrivat*.
Dire non lo so non ti toglie autorevolezza, soprattutto se aggiungi alcune cose semplici: cosa stai osservando (i dati che hai, non quelli che vorresti), cosa ti serve per capire (una prova, un confronto, del tempo), quando tornerai con una risposta migliore (un impegno, non un vago “poi”).
Detto così, non lo so diventa “non lo so, ancora”. Sposta la conversazione dal teatro dell’opinione alla cura del metodo. In azienda accelera le decisioni (perché chiarisce i vincoli), con i clienti costruisce fiducia (perché rende visibili i criteri), nel lavoro creativo libera spazio (perché smette di pretendere l’idea perfetta al primo colpo).
La trasparenza è diversa dall’oversharing. Non è aprire ogni cassetto: è aprire i cassetti giusti.
E i cassetti giusti sono quelli che mostrano le ipotesi in gioco (A/B/C, con pro e contro), i criteri di scelta (perché una strada è preferibile oggi), ciò che non faremo (confini che proteggono tempo e qualità). Tutto il resto rimane dietro le quinte, com’è giusto.
Nel vino, nessuno si scandalizza se dici che una riserva è “in affinamento”: non è un alibi, è una promessa di qualità. Anche i progetti sono così: se dichiari che sei tra fermentazione e assaggio, offri un punto d’appoggio e inviti a un test comune, invece di vendere bottiglie che non esistono. In mare, impari a fidarti di chi ti mostra la rotta e il meteo, non solo la foto in cima al faro.
La parte più difficile è togliere l’armatura del personaggio. Quando ammetti un limite, senti scricchiolare l’immagine di “quello che ne sa”. Ma c’è un paradosso: più rendi visibili i passaggi del pensiero, più gli altri possono camminare con te.
Trasparenza significa dire “non lo so” e far vedere come stai cercando. È un gesto professionale prima che morale.
Non è debolezza, è manutenzione dell’autorevolezza. Le opinioni veloci riempiono i feed; i processi visibili costruiscono reputazione. Questo genere di trasparenza non ti fa sembrare perfett*: ti fa sembrare affidabile. E nel lavoro e nella comunicazione, spesso (se non sempre), è tutto.
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ed è un viaggio nei mille significati e valori che ha avuto e ha oggi la balena per noi esseri umani. Per me è stato molto bello scriverla, spero sia altrettanto piacevole per te leggerla!
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