I luoghi che pensano con noi
[Onde #220] Su come l'ambiente in cui scriviamo e lavoriamo condiziona le nostre parole.
Questa settimana comincio con una confessione. Oltre a ricordare perfettamente ogni partita dell’Inter (risultato, gol, ecc ecc), la mia memoria non perde un colpo nemmeno quando si tratta di ricordare dove ho scritto una determinata cosa.
Mail, articoli, progetti: purtroppo o per fortuna, ne produco ormai tanti e tutti i giorni da anni, eppure anche a distanza di tempo ricordo molto bene dove ho iniziato a scriverli, dove ho editato, dove ho premuto “invia”. Non chiedermi come mai, non è qualcosa di voluto: io sicuramente non ho fatto nulla per alimentare questa cosa. Anche perché non è certo un talento e non mi frutterà nulla.
Ma allora, perché ti dico ciò? Perché col tempo mi sono reso conto che c'è una differenza abissale tra come scrivo seduto alla mia scrivania a casa, come scrivo quando sono sul divano, oppure quando mi trovo al tavolino di un bar o in treno. Stesse competenze, stesso computer, stesso me. Ma è come se luoghi diversi tirassero fuori versioni diverse di me.
Dopo averlo notato, devo dire che ragiono spesso su questa cosa. Quanto i luoghi pensano con noi, senza che ce ne accorgiamo. Non parlo solo di ispirazione o di mood, parlo proprio di come il cervello elabora diversamente a seconda di dove siamo. Come sceglie le parole, come valuta i rischi, come decide il grado di apertura o di controllo da usare.
Non c’è una regola universale che si adatta a tuti, però analizzando ciò che scrivi potresti notare che da casa elabori in modo più personale, più morbido. Le frasi vengono più lunghe e intrecciate. Quando sei in ufficio o in un coworking magari diventi più sintetic*, più "professionale". Non è una scelta consapevole: è come se il luogo suggerisse un registro.
E non è solo una questione di comfort. È proprio che ambienti diversi attivano parti diverse di noi. Il mare mi rende più aperto alle connessioni, più disposto a condividere dubbi; la città mi tira fuori un tono più dinamico, più reattivo. Non so spiegartelo scientificamente, ma lo sento.
Forse è perché ogni ambiente porta con sé una storia di comportamenti. In ufficio sono abituato a essere efficiente, a rispondere in fretta, a non perdere tempo. A casa posso permettermi di riflettere, di cancellare, di riscrivere. Al bar sono più sociale, più incline al dialogo. E tutto questo si riflette nelle parole che scelgo, nel modo in cui costruisco i ragionamenti.
È strano pensare che la “geografia” influenzi la comunicazione più di quanto crediamo. Che il tuo tono su LinkedIn possa dipendere dal fatto che vivi in una grande città o in un centro più piccolo. Che il modo in cui presenti un progetto cambi se lo fai dalla tua scrivania o da uno spazio condiviso. Che perfino la luce di una stanza possa modificare il livello di vulnerabilità che ti permetti in un testo.
Mi sono accorto che molti professionisti che ammiro hanno questa cosa in comune: sanno scegliere dove fare cosa. Non lavorano sempre dallo stesso posto per abitudine, ma cambiano ambiente a seconda del tipo di comunicazione che devono produrre.
Non è che il luogo faccia il lavoro al posto nostro. È che certi ambienti ci permettono di accedere a parti di noi che altrimenti teniamo chiuse. E la comunicazione, soprattutto quella autentica, ha bisogno di tutte le parti di noi, non solo di quella "professionale".
Ecco perché forse vale la pena fermarsi, rileggersi e porsi qualche domanda (atteggiamento che, come amo ripetere, è risolutivo in tante situazioni). Dove scrivo meglio? Dove trovo le parole giuste più facilmente? Dove riesco a essere più me stess*? E soprattutto: sto sfruttando al meglio questa cosa per migliorare la mia comunicazione?
Perché alla fine, se i luoghi pensano con noi, diventa fondamentale sceglierli consapevolmente.
🗺️ Piccola geografia della creatività
Riguardando le abitudini di alcuni scrittori di successo, si nota quanto fosse intenzionale la loro scelta degli spazi. Non casuale, non per comodità: strategica.
Virginia Woolf, ad esempio, scriveva in piedi a un leggio alto, guardando verso il giardino. Come se la posizione eretta desse maggior energia al suo pensiero. Maya Angelou, invece, affittava stanze d'hotel completamente spoglie - solo un letto, una scrivania, la Bibbia e il vocabolario che si portava (e pare anche una bottiglia di Sherry) - per eliminare qualsiasi distrazione visiva.
Roald Dahl si era costruito una capanna in fondo al giardino, piena di oggetti apparentemente casuali ma che in realtà erano lì per stimolare la fantasia. Mentre J.K. Rowling, fino a quando non è diventata troppo famosa, scriveva Harry Potter nei caffè di Edimburgo perché traeva ispirazione e concentrazione dal movimento delle persone e dal "rumore di fondo".
Ognuno aveva capito di cosa aveva bisogno il proprio processo creativo e aveva modellato lo spazio di conseguenza. Isolamento totale o stimoli esterni. Ordine maniacale o caos controllato. Luce naturale o penombra.
Non sto dicendo di copiare le loro soluzioni, quello che funzionava per loro potrebbe essere un disastro per te. Ma la lezione resta: lo spazio non è mai neutro.
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💡I link della settimana
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📱 Social - Strategie di engagement su Instagram: l’analisi dei formati per creator e marketer. Non tutti i formati fanno la stessa cosa: Reels e carousel per farti scoprire, foto singole e Stories per tenere vicino chi già ti segue, Live e Canali per i super-fan. Scegli il “vestito” in base all’obiettivo, non alla moda del momento
🛠️ Il tool - ulist. Liste che diventano mini-spazi di progetto: puoi metterci foto, video, audio, checklist e note “assistite” dall’AI; widget su iOS/Android, sincronizzazione e uso offline quando sei in giro. Utile per libri da leggere, film da guardare, viaggi e molto altro.
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