Il lessico del riposo
[Onde #227] Le parole che usiamo per descrivere le pause decidono se ce le concediamo o ce le sabotiamo.
Con le feste che si avvicinano e nell’epoca della produttività a tutti i costi, il riposo diventa un tema quasi inevitabile. Lo aspettiamo, lo pianifichiamo, eppure c’è qualcosa che spesso trascuriamo: il linguaggio che usiamo per descriverlo.
Per molto tempo la mia risposta alla domanda “come hai passato il weekend?” sarebbe stata abbastanza onesta da farmi arrossire: “non ho combinato niente”, “ho perso un pomeriggio”. Il corpo magari era sul divano o al mare, la testa invece immersa in un articolo da scrivere o impegnata a giustificare quella pausa a un tribunale immaginario.
Il punto è che la qualità del nostro riposo dipende dal tempo, ma anche dalle parole che gli dedichiamo. Troppo spesso però permettiamo a quel linguaggio di lavorare contro di noi.
C’è un abisso tra “mi concedo una pausa” e “oggi sono stato improduttiv*”. Nel primo caso c’è una scelta, nel secondo c’è quasi un’accusa. “Oggi rallento” racconta un tempo intenzionale, mentre “oggi non ho combinato niente” racconta un fallimento. Cambia l’umore, cambia la percezione di sé e cambia anche il rientro: se ti senti in colpa rientri di corsa, se ti riconosci il diritto al riposo rientri con qualcosa in più.
Può sembrare tutto molto teorico, ma in realtà gli effetti sono concreti.
Il modo in cui ci parliamo influenza quanto tempo impieghiamo a ricaricarci davvero e con quale qualità di energia torniamo alle cose da fare.
In questi mesi mi capita spesso di leggere voci che mettono in discussione la grind culture, quella narrativa che ci vuole sempre ottimizzati, sempre in corsa. Tricia Hersey, ad esempio, in Rest is Resistance parla del riposo come di un atto che ha anche una dimensione culturale e politica, oltre che individuale: decidere di fermarsi significa sottrarsi a una logica che ci misura solo in base a quanto produciamo.
Ecco, al di là del contesto americano del libro, questa cosa mi torna spesso in mente quando sento (in me e intorno) frasi tipo: “se mi fermo, perdo terreno”.
Ci raccontiamo pause in linguaggi diversi: c’è chi dice “me lo sono meritato”, chi sussurra “oggi ho fatto poco”. C’è chi specifica “pausa veloce, giuro” e chi invece ammette “avevo bisogno di sparire un pochino”. Ogni volta stiamo rivelando che rapporto abbiamo con il tempo e con il nostro valore. Il riposo come premio dopo la fatica o come colpa da espiare.
La cosa interessante è che il corpo spesso sa di cosa ha bisogno, la lingua invece fa resistenza. Allora forse il primo lavoro da fare sta nel cambiare il modo in cui comunichiamo con noi stessi quando sentiamo che è ora di rallentare, più che cercare la routine perfetta.
Provare a sostituire “sto perdendo tempo” con “sto prendendo fiato” oppure “sto scappando dalle cose importanti” con “sto creando lo spazio per tornarci meglio”.
Il riposo è un luogo in cui capita di pensare in modo diverso, di collegare idee, di capire cosa tenere e cosa lasciare. Una parentesi tra due blocchi di efficienza, certo, ma anche qualcosa di più. Quante decisioni importanti sono arrivate in un momento di distrazione apparente? Se li raccontiamo solo come momenti rubati, ci perdiamo metà del loro valore.
Il lessico del riposo inizia da qui: smettere di usare parole da verbale disciplinare e scegliere parole da quaderno di bordo. Il modo in cui nominiamo le cose decide se ce le concediamo o ce le sabotiamo, ed è per questo che vale la pena farci caso, soprattutto adesso che si avvicina un periodo in cui fermarsi dovrebbe essere la cosa più naturale del mondo.
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